STORIA DELL'OLIVICOLTURA IN ISTRIA
L’olivo esiste in questi territori fin dall’epoca preromana, come riportato da Marziale, Strabone e Pomponio Mela: furono probabilmente coloni fenici (i Focesi fondatori di Marsiglia) e greci (probabilmente Siracusani) ad introdurre oltre all’olivo anche l’insieme delle conoscenze tecniche ed agronomiche. I Romani, già all’epoca dell’Impero, si accorsero della naturale predisposizione di questi territori e della condiscendenza del clima per la produzione dell’olio e per la coltivazione dell’olivo, già presente su tutta l’area nordorientale dell’Adriatico, dalle isole del Quarnero all’Istria fino ai dirupi carsici del comprensorio muggesano-triestino e del suo entroterra marnoso-arenaceo. Decisero perciò di ampliare la sua diffusionei in modo da renderla una coltivazione da reddito legata principalmente ad un florido commercio organizzato con i popoli che abitavano le sponde del Danubio.
Con tale prospettiva furono inviati in Istria 15.000 latini nel-l’intento di colonizzare quelle terre per dedicarle all’agricoltura.
Ogni podere fu dotato di un proprio torchio così da consentire che la spremitura procedesse di pari passo con la raccolta: numerose testimonianze di questi fatti restano là dove si trovavano i resti di case di età romana.
Gli oli più lodati dai narratori romani di allora erano quelli di Venafro e dell’Istria: Marziale ricorda l’olio d’Istria come il migliore di tutti, similmente lodato anche da Plinio, Galeno e Pausania.
Il tramonto della civiltà latina trascinò con sé anche la dedizione alla cura dell’olivo che perse la sua importanza passando
momenti di trascuratezza durante i secoli delle invasioni barbariche fino alla sua rinascita durante l’Impero Bizantino che ripristinò un florido commercio di olio d’oliva.
Le devastazioni barbariche risparmiarono la penisola istriana, per cui già sotto il dominio dei Goti (come ricorda un documento di Cassiodoro del 538 in cui si descrivono questi territori come particolarmente adatti alla produzione di vino ed olio) la coltivazione dell’olivo rimase una delle risorse agricole più importanti, continuando anche sotto la dominazione dei Franchi.
La vocazione dell’Istria all’agricoltura ed all’olivo in particolare si mantenne al punto da farne una delle forme di riscossione dei tributi feudali con le cosiddette decime, costituite dal conferimento in natura del prodotto della raccolta e della spremitura delle olive.
Tre secoli più tardi (nell’804) i legati di Carlo Magno descrissero gli oliveti istriani in un loro importante documento in cui si
parlava dei possedimenti del duca franco Giovanni, ricchi di oliveti e vigne, citando anche il pubblico patrimonio di Cittanova che gli rendeva centinaia di moggi d’olio con il lavoro di oltre duecento coloni.
Tra le più antiche pergamene dell’Archivio di Venezia si ritrova un codicillo del 26 aprile 847 della monaca Maru con cui legava all’Abbazia di Sesto (diocesi di Concordia),nella persona dell’Abate Lupone, 55 corbe di olive da consegnare ai serbatoi dell’Abbazia.
Anche nel periodo franco le decime si pagarono con l’olio di oliva così come nei tempi successivi in cui Maestro Filippo, delegato papale, nel mese di novembre dell’anno 1152, confermava ai canonici di Trieste che la riscossione delle decime doveva avvenire non solo in vino e grano, ma anche in olio.
Durante l’autonomia comunale, i proprietari terrieri ed i contadini furono obbligati a piantare olivi nei propri poderi, come risulta da importanti documenti storici che riportano di contratti includenti la piantagione di olivi nel territorio di Trieste.
Proseguendo con le successive testimonianze sulla diffusione e redditività dell’olivicoltura, da un inventario del 23 agosto dell’anno 1322 delle masserizie lasciate da Giovanni de Genano, spettanti per eredità alle sue figlie, si annovera una pietra contenente olio. Golecio di Popechio con testamento del 17 ottobre dell’anno 1348 legava a Nicolò de Cenesio un’urna contenente olio ed una pietra contenente trecento libbre d’olio.
Questa usanza di tenere l’olio in capaci urne di pietra calcare si mantenne, nelle vecchie case, fino al 1800 e la gabella menzionata con il nome di petrolio, si riferisce a questa usanza di conservare l’olio nella pietra: una pila da olio fu anche il dono del navigatore Vidacovich al comune di Capodistria. Anche Filippo Tommasini, vescovo di Cittanova morto nel 1654, lasciò scritto a proposito della florida olivicoltura sviluppatasi sotto l’egida delle province veneziane:“...che dell’olio si cava un grandissimo denaro di ciascuno luogo l’Istria e non era mercanzia più stimata che questa in tutta la provincia...”.
L’olio che costituiva la più importante fonte di reddito per la provincia istriana (come si evince dall’elevato numero dei torchi
che nel secolo XVIII ammontava a 188), doveva fare scalo alle dogane veneziane, dove pagava un gravoso diritto di introduzione e di consumo a favore dello Stato. Le molte angherie fiscali cui
era sottoposto lungo il suo tragitto di distribuzione, oltre alle molte estorsioni cui era soggetto nella zona di produzione (quali: le decime delle olive, il dazio dei torchi e la rigorosa sorveglianza della spremitura) fecero sì che l’olio istriano non andasse più a Venezia ma penetrasse furtivamente a Trieste ed anche in Friuli dove trovava facile smercio, eludendo la sorveglianza dei veneti.
Sotto il governo austriaco tutto il commercio dell’olio istriano passò perTrieste,che si sottrasse al controllo di Venezia,alleandosi con gli Asburgo per divenire l’importante emporio di transito di numerose altre merci.Allo scopo di favorire il commercio dell’olio con gli stati soggetti al dominio austriaco, nel 1493 il re Federico III rese obbligatorio il transito dell’olio istriano per le dogane di Trieste e Duino instaurando anche con il regno di Napoli,nel 1519, privilegi commerciali in base ai quali Carlo I di Spagna consentì al porto triestino di caricare olio “chiaro e grosso”: tali privilegi continuarono anche con Ferdinando III nel 1636 e Carlo VI nel 1714.
Nell’anno 1719 Carlo VI concesse a Trieste i diritti di portofranco e contemporaneamente fu fondata a Trieste la famosa Compagnia Orientale che avrebbe dovuto essere un importante fattore di sviluppo per le iniziative emporiali del porto, che godeva di numerosi privilegi tra i quali la esenzione da ogni dazio, avendo anche l’esclusiva sul commercio dell’olio prodotto su tutto il litorale. Lo stesso Carlo VI nel 1731 ordinò che l’olio diretto in Boemia fosse libero da ogni dazio di transito e da qualsiasi altra esazione imperiale, provinciale e privata.
La Compagnia Orientale non durò a lungo, in quanto era sovvenzionata ed agiva in regime di monopolio, ostacolando l’afflusso di imprenditori privati, e finì così per fallire.
Il contemporaneo declino della Repubblica di S. Marco trascinò con sé molte attività economiche tra cui principalmente quelle commerciali ed agricole, per cui le sue province risentirono fortemente di questo decadimento, al punto che nel secolo XVIII la coltivazione dell’olivo subì un arresto, anche se le cause di questa crisi vanno ricercate anche altrove.
Inaugurato così il diritto di tutti i cittadini al libero esercizio del commercio per l’eliminazione del monopolio della Compagnia Orientale e per la caduta dei traffici veneziani, il traffico dell’olio si fece sempre più vivace: oltre agli oli di Puglia, Sicilia ed Istria, si commercializzarono oli dalla Dalmazia e dalla Grecia.
Furono gli anni in cui il commercio dell’olio costituì una delle principali risorse del commercio di esportazione.
In seguito questo commercio iniziò a regredire sia per motivi tecnici che economici e commerciali, comuni anche ad altri paesi: si iniziò infatti a sostituire l’olio d’oliva per illuminazione con il petrolio ed il gas, a ciò si aggiunsero le speculazioni che miravano, a seconda dell’andamento del prezzo dell’olio, a tagliare l’olio d’oliva con altri oli per aumentarne la quantità, senza riguardi per la qualità creando così, da parte dei consumatori, una certa diffidenza per questo prodotto.
Anche le condizioni meteorologiche, perniciose per l’olivicoltura a causa dei geli degli anni 1782 e 1789 in successione ravvicinata che distrussero la maggior parte degli oliveti, contribuirono a portare in rovina il settore.
Nei documenti annuari della Società Agraria Istriana si riporta che dall’anno 1771 all’anno 1794 la produzione di olio subì variazioni enormi a seconda delle condizioni climatiche e della siccità, passando la quantità prodotta da 20.468 a 1.050 orne.
Nella relazione del 15 luglio 1789 del deputato per gli oli, come riportato negli annuari della Società Agraria Istriana (anno III), si ricorda che:”...l’orrido gelo della stagione invernale 17881789 cagionò nell’Istria ingente danno agli oliveti...”.
Il grave ridimensionamento verificatosi nell’Ottocento si stabilì anche a seguito di pregiudizi di matrice popolare legati alla sensibilità delle piante al freddo, alla scarsa redditività delle stesse nel breve periodo, ma anche alla concorrenza degli oli di semi, alla frequente sofisticazione degli oli di oliva con questi ultimi ed in generale con uno scadimento degli oli di oliva sul piano qualitativo operato anche dagli stessi intermediari commerciali.
I nomi più comunemente adoperati a contrassegnare le varietà locali di olivo erano: Carbonese, Carbogno, Carbone, Carbonazzo; Bugo, Buso o Busiaro; Comune, Matta, Storta; Smartella o Martella; Morasol, Brombolese; Bianchera, Biancara o Bianca; Nera, Negrera, Nerastra o Nerizza; Rossignolo o Rossignol; Auber, Impunto o Puntito; Sandale, Sempreverde, Bellizza, Piccola, Grande e Grossara.
Con l’inizio dell’ultimo secolo l’olivicoltura non subì significative variazioni fino alla durissima gelata del 1929. Dal catasto agrario della provincia di Trieste (compartimento della Venezia Giulia e Zara) dell’anno 1929 erano conosciute due qualità principali: belice (Bianchera) e cernice (olive nere) e risultava che a Trieste fossero coltivati ad olivo 94 ettari nella zona agraria XVI (Muggia e S. Dorligo), di cui 77 nel muggesano e 17 a S. Dorligo.
Anche la zona costiera era ampiamente coltivata ad olivo, un quadro caratteristico era rappresentato dalle rigogliose piantagioni che abbellivano la sponda meridionale della ferrovia da Aurisina fino a Barcola. Ma in quell’anno cause concomitanti ridussero drasticamente la realtà olivicola locale. Le abbondanti nevicate accompagnate da un repentino abbassamento della temperatura e da forte vento di bora distrussero completamente la parte epigea degli olivi. Inoltre le ordinanze dell’allora regime fascista, nonché la stessa necessità di legna da ardere, obbligarono al taglio del legno ed anche all’estirpazione del ciocco, precludendo così la naturale riproduzione dai polloni.
Dal porto di Trieste imbarcazioni completamente cariche di legno di olivo da ardere salparono per varie destinazioni in Italia. I tronchi di ulivo vennero anche utilizzati per la produzione del carbon fossile.
Negli anni ‘30 per compensare la grave moria di piante furono introdotte delle nuove varietà da innesto, soprattutto le cultivar Pendolino e Frantoio, per testarne la resistenza al freddo. Ma purtroppo l’intenzione di rinnovare la coltivazione con nuove piantine venne vanificata dallo scoppio della II Guerra Mondiale.
Negli anni a seguire non vi furono significativi investimenti colturali a causa sia dei problemi che si dovevano fronteggiare per la ricostruzione del dopoguerra sia per la complessiva ristrutturazione dell’economia locale con prospettive più favorevolmente rivolte a nuovi insediamenti industriali ed allo sviluppodel terziario. Inoltre nel freddo inverno dell’anno 1956 un’altra grave gelata diede il colpo di grazia alla derelitta olivicoltura.
In quegli anni solamente la caparbietà di alcuni agricoltori che continuarono a credere in questa coltivazione, nonostante la scarsa capacità remunerativa, ha permesso il mantenimento di un certo patrimonio olivicolo locale di varietà autoctone come Bianchera e Carbona e di usanze locali.
A primavera l’olivo veniva concimato e potato, tradizionalmente le donne decoravano i ramoscelli appena recisi con le immagini dei santi e così addobbati li vendevano la domenica delle Palme sui sagrati delle chiese del Carso.
La raccolta delle olive (u’ljçe) aveva inizio dopo Santa Caterina (25novembre) e generalmente, veniva fatta dai soli componenti della famiglia: non era un lavoro troppo piacevole a causa del freddo e della Bora che in quel periodo dell’anno soffiava con particolare intensità. Le olive venivano raccolte con le mani direttamente da terra, qualche volta ci si aiutava con una particolare scala a tre piedi chiamata koblica e messe nella tuorba (baligo), una borsa di stoffa o di tela di sacco che veniva legata intorno alla vita. I frutti raccolti venivano posti in sacchi o in tinozze e sistemati su di un carro. Portati a casa venivano puliti delle foglie e dalle altre impurità e, per evitare che prendessero delle muffe,adagiati poi sul pavimento della soffitta o del fienile da 10 a 15 giorni ossia fino al primo turno di spremitura nel torchio.
Un tempo ogni paese aveva il proprio torchio che poteva essere di proprietà di un privato o della comunità. Al torchio lavoravano tre, quattro uomini contemporaneamente, dalle sei della mattina fino alle nove di sera circa, a volte anche fino a notte fonda. Per il lavoro svolto, che era molto faticoso, i lavoratori venivano pagati in contanti, tanto per quintale, oppure con una parte dell’olio ricavato.
Nel torchio le olive venivano pesate, poi rovesciate sulla macina e schiacciate; le macine venivano azionate manualmente da due uomini, da un asino o da un cavallo.
La pasta delle olive veniva poi messa nelle spuorte (appositi sacchi tondi con un buco in mezzo, di canapa o ginestra, in italiano fiscoli). Le spuorte venivano adagiate una sull’altra nella pressa (prjesa): 3 -4 spuorte, un lamarin (piatto d’acciaio), e così via fino a riempire la pressa (circa 150 - 180 kg di pasta d’olivo). Si iniziava allora la spremitura girando una vite (trta) che comandava la pressa, con l’aiuto di una spranga e anche questa faticosa operazione veniva svolta manualmente.
Dalla pressa il mosto scolava in un contenitore capiente: se il liquido usciva troppo lentamente, veniva di tanto in tanto versata dell’acqua calda per velocizzare lo scorrimento. Dal recipiente di raccolta veniva versato con un mestolo in un paiolo posto su di uno spargert, e messo a bollire per raffinarsi. Più l’olio bolliva, più si raffinava diventando però anche nello stesso tempo anche più acido, alcuni perciò lo bollivano meno a lungo. Completata questa operazione si raccoglieva l’olio raffinato ed il sedimento (muorklio)veniva ribollito a casa.
Ciò che restava delle olive spremute veniva chiamato nuogle(sansa) e veniva riusato nel torchio per attizzare il fuoco,qualcuno lo portava a casa per darlo come foraggio ai maiali, più spesso, però, era usato come combustibile nel focolare. Le nuogle bruciavano producendo parecchio fumo.
L’olio che durante la spremitura colava dal mestolo e dai vari contenitori nei passaggi successivi, alla fine della spremitura si conservava in un recipiente particolare. Di quest’olio si diceva che fosse per il lupo (za vuka).
Il contadino che aveva le olive in spremitura portava ai lavoratori anche da mangiare: il frustek a metà mattina, il pranzo e poi la juzna nel pomeriggio. Frequentemente veniva preparato del baccalà in bianco o del sedano, e dopo aver riempito il primo paiolo, solitamente, si offrivano delle frittelle (fancli).
L’olio d’oliva si conservava in grandi vasi di pietra in cantina, da dove veniva attinto con un mestolo; da qui il detto “..dalle nostre parti non basta la bottiglia, a casa nostra c’è il mestolo”.
L’olio veniva usato anzitutto per la verdura ed il pesce, per friggere i dolci, si consumava però anche crudo con il pane. Nell’olio si conservava anche il formaggio pecorino, che era considerato un cibo prelibato.
Nel secolo scorso il periodo più misterioso dell’anno era quello compreso da Natale all’Epifania. Questi erano i giorni segnati dalla più lunga oscurità, ed erano appunto chiamati le notti dei lupi. L’immagine delle dodici notti è rimasta a lungo viva nei ricordi della gente: questa affermazione si basa sulla testimonianza di alcuni anziani del Breg:“... nel periodo invernale si spremevano le olive nel frantoio, uno alla volta, in ordine. Quando uno finiva lasciava il posto all’altro. Era consuetudine lasciare l’olio che gocciolava dai vari recipienti per il lupo. Generalmente veniva portato a casa da quelli che lavoravano nel frantoio. A lavoro ultimato, invece si faceva il likof e si condiva con quest’olio la radice di sedano affettata con filetti di acciuga”.
L’olivo “Bianchera”, pianta molto rustica che tollera bene i
venti marini, il freddo e le energiche potature, è caratterizzata da
elevata vigoria e da lunghi rami fruttiferi con portamento assurgente.
Il frutto (di 2 grammi) ha forma ellissoidale ed è leggermente
asimmetrico. A maturazione ha sempre un colore verde ed è
caratteristico perché è coperto da numerose e piccole lenticelle.
La produttività degli olivi negli anni è buona e costante.
L’epoca di maturazione dei frutti è piuttosto tardiva e scalare nel
tempo con elevata resa dei frutti al frantoio (21 -24 % di olio).
Pietro Devitak (1847) ed anche altri autori descrivono questa
varietà ed i suoi pregi, e si descriveva che l’olio triestino, per
la sua eccezionale dolcezza, veniva inviato in omaggio all’imperatrice
Maria Teresa d’Austria.
Da una ricerca svolta sempre negli anni ‘50 dall’Istituto di
Ricerca Agricola di Capodistria risultava che la Bianchera innestata
fruttifica ogni anno e che la produttività media annua per pianta
è di 18 kg, mentre nelle altre varietà è di 11 kg.
La presenza della coltivazione dell’olivo in queste zone è
determinata da fattori ambientali ed agronomici diversi. Il clima
mite, perché risente della vicinanza del mare, e poco umido, favorisce
una buona produttività, mentre il terreno fresco e drenato,
tipico delle terre rosse e delle rocce calcaree, garantisce in primavera
ed in estate la crescita continua della nuova vegetazione.
L’adattamento dell’olivo a “Bianchera” in questo territorio è
testimoniato da Hugues nel manoscritto del 1902 depositato alla
scuola agraria di Parenzo. Egli indicava tra l’altro che le frequenti
escursioni autunnali permettevano ai frutti di questa cultivar di
maturare lentamente garantendo un continuo incremento della
resa in olio da ottobre a dicembre ed una elevata sintesi di acidi
grassi e di polifenoli, composti che meglio degli altri conferiscono
“stabilità” all’olio.
L’odore di fruttato non prevale sul sapore che manifesta una
sensazione di mandorla e di erba fresca da poco sfalciata.Appena
estratto è olio ben equilibrato e di splendida freschezza, tanto da
convincere il consumatori ad utilizzarlo subito. L’intensità e la
tonalità di colore è di uno splendido verde intenso.
L’olio di Bianchera si distingue per i bassi contenuti di acidi
grassi saturi (palmitico e stearico), mentre gli elevati contenuti di
polifenoli e di 2-esenale garantiscono all’olio una valutazione sensoriale
elevata.
L’olio extra vergine di Bianchera per il contenuto di clorofilla
mostra, appena estratto, un eccezionale colore verde intenso,
mentre la bassa acidità ed il numero di perossidi ne garantiscono
nel tempo la migliore conservazione. Per garantire la qualità del
prodotto, si inizia la raccolta dei frutti all’inizio di novembre per
terminarla entro il mese. Tale scelta, anche se riduce la resa al
frantoio, garantisce la produttività delle piante ogni anno limitando
così l’effetto dell’alternanza di produzione e garantisce l’ottenimento
di un olio extravergine di elevata qualità.
Il consumo di olio resta piuttosto basso rispetto ad altri paesi
mediterranei, ma la vendita diretta al consumatore dell’olio prodotto
in casa rende difficile la valutazione delle quantità prodotte.
Tratto dal volume:
Civiltà contadina in Istria” pubblicato dal Circolo di Cultura istro-veneta “ISTRIA”
Con tale prospettiva furono inviati in Istria 15.000 latini nel-l’intento di colonizzare quelle terre per dedicarle all’agricoltura.
Ogni podere fu dotato di un proprio torchio così da consentire che la spremitura procedesse di pari passo con la raccolta: numerose testimonianze di questi fatti restano là dove si trovavano i resti di case di età romana.
Gli oli più lodati dai narratori romani di allora erano quelli di Venafro e dell’Istria: Marziale ricorda l’olio d’Istria come il migliore di tutti, similmente lodato anche da Plinio, Galeno e Pausania.
Il tramonto della civiltà latina trascinò con sé anche la dedizione alla cura dell’olivo che perse la sua importanza passando
momenti di trascuratezza durante i secoli delle invasioni barbariche fino alla sua rinascita durante l’Impero Bizantino che ripristinò un florido commercio di olio d’oliva.
Le devastazioni barbariche risparmiarono la penisola istriana, per cui già sotto il dominio dei Goti (come ricorda un documento di Cassiodoro del 538 in cui si descrivono questi territori come particolarmente adatti alla produzione di vino ed olio) la coltivazione dell’olivo rimase una delle risorse agricole più importanti, continuando anche sotto la dominazione dei Franchi.
La vocazione dell’Istria all’agricoltura ed all’olivo in particolare si mantenne al punto da farne una delle forme di riscossione dei tributi feudali con le cosiddette decime, costituite dal conferimento in natura del prodotto della raccolta e della spremitura delle olive.
Tre secoli più tardi (nell’804) i legati di Carlo Magno descrissero gli oliveti istriani in un loro importante documento in cui si
parlava dei possedimenti del duca franco Giovanni, ricchi di oliveti e vigne, citando anche il pubblico patrimonio di Cittanova che gli rendeva centinaia di moggi d’olio con il lavoro di oltre duecento coloni.
Tra le più antiche pergamene dell’Archivio di Venezia si ritrova un codicillo del 26 aprile 847 della monaca Maru con cui legava all’Abbazia di Sesto (diocesi di Concordia),nella persona dell’Abate Lupone, 55 corbe di olive da consegnare ai serbatoi dell’Abbazia.
Anche nel periodo franco le decime si pagarono con l’olio di oliva così come nei tempi successivi in cui Maestro Filippo, delegato papale, nel mese di novembre dell’anno 1152, confermava ai canonici di Trieste che la riscossione delle decime doveva avvenire non solo in vino e grano, ma anche in olio.
Durante l’autonomia comunale, i proprietari terrieri ed i contadini furono obbligati a piantare olivi nei propri poderi, come risulta da importanti documenti storici che riportano di contratti includenti la piantagione di olivi nel territorio di Trieste.
Proseguendo con le successive testimonianze sulla diffusione e redditività dell’olivicoltura, da un inventario del 23 agosto dell’anno 1322 delle masserizie lasciate da Giovanni de Genano, spettanti per eredità alle sue figlie, si annovera una pietra contenente olio. Golecio di Popechio con testamento del 17 ottobre dell’anno 1348 legava a Nicolò de Cenesio un’urna contenente olio ed una pietra contenente trecento libbre d’olio.
Questa usanza di tenere l’olio in capaci urne di pietra calcare si mantenne, nelle vecchie case, fino al 1800 e la gabella menzionata con il nome di petrolio, si riferisce a questa usanza di conservare l’olio nella pietra: una pila da olio fu anche il dono del navigatore Vidacovich al comune di Capodistria. Anche Filippo Tommasini, vescovo di Cittanova morto nel 1654, lasciò scritto a proposito della florida olivicoltura sviluppatasi sotto l’egida delle province veneziane:“...che dell’olio si cava un grandissimo denaro di ciascuno luogo l’Istria e non era mercanzia più stimata che questa in tutta la provincia...”.
L’olio che costituiva la più importante fonte di reddito per la provincia istriana (come si evince dall’elevato numero dei torchi
che nel secolo XVIII ammontava a 188), doveva fare scalo alle dogane veneziane, dove pagava un gravoso diritto di introduzione e di consumo a favore dello Stato. Le molte angherie fiscali cui
era sottoposto lungo il suo tragitto di distribuzione, oltre alle molte estorsioni cui era soggetto nella zona di produzione (quali: le decime delle olive, il dazio dei torchi e la rigorosa sorveglianza della spremitura) fecero sì che l’olio istriano non andasse più a Venezia ma penetrasse furtivamente a Trieste ed anche in Friuli dove trovava facile smercio, eludendo la sorveglianza dei veneti.
Sotto il governo austriaco tutto il commercio dell’olio istriano passò perTrieste,che si sottrasse al controllo di Venezia,alleandosi con gli Asburgo per divenire l’importante emporio di transito di numerose altre merci.Allo scopo di favorire il commercio dell’olio con gli stati soggetti al dominio austriaco, nel 1493 il re Federico III rese obbligatorio il transito dell’olio istriano per le dogane di Trieste e Duino instaurando anche con il regno di Napoli,nel 1519, privilegi commerciali in base ai quali Carlo I di Spagna consentì al porto triestino di caricare olio “chiaro e grosso”: tali privilegi continuarono anche con Ferdinando III nel 1636 e Carlo VI nel 1714.
Nell’anno 1719 Carlo VI concesse a Trieste i diritti di portofranco e contemporaneamente fu fondata a Trieste la famosa Compagnia Orientale che avrebbe dovuto essere un importante fattore di sviluppo per le iniziative emporiali del porto, che godeva di numerosi privilegi tra i quali la esenzione da ogni dazio, avendo anche l’esclusiva sul commercio dell’olio prodotto su tutto il litorale. Lo stesso Carlo VI nel 1731 ordinò che l’olio diretto in Boemia fosse libero da ogni dazio di transito e da qualsiasi altra esazione imperiale, provinciale e privata.
La Compagnia Orientale non durò a lungo, in quanto era sovvenzionata ed agiva in regime di monopolio, ostacolando l’afflusso di imprenditori privati, e finì così per fallire.
Il contemporaneo declino della Repubblica di S. Marco trascinò con sé molte attività economiche tra cui principalmente quelle commerciali ed agricole, per cui le sue province risentirono fortemente di questo decadimento, al punto che nel secolo XVIII la coltivazione dell’olivo subì un arresto, anche se le cause di questa crisi vanno ricercate anche altrove.
Inaugurato così il diritto di tutti i cittadini al libero esercizio del commercio per l’eliminazione del monopolio della Compagnia Orientale e per la caduta dei traffici veneziani, il traffico dell’olio si fece sempre più vivace: oltre agli oli di Puglia, Sicilia ed Istria, si commercializzarono oli dalla Dalmazia e dalla Grecia.
Furono gli anni in cui il commercio dell’olio costituì una delle principali risorse del commercio di esportazione.
In seguito questo commercio iniziò a regredire sia per motivi tecnici che economici e commerciali, comuni anche ad altri paesi: si iniziò infatti a sostituire l’olio d’oliva per illuminazione con il petrolio ed il gas, a ciò si aggiunsero le speculazioni che miravano, a seconda dell’andamento del prezzo dell’olio, a tagliare l’olio d’oliva con altri oli per aumentarne la quantità, senza riguardi per la qualità creando così, da parte dei consumatori, una certa diffidenza per questo prodotto.
Anche le condizioni meteorologiche, perniciose per l’olivicoltura a causa dei geli degli anni 1782 e 1789 in successione ravvicinata che distrussero la maggior parte degli oliveti, contribuirono a portare in rovina il settore.
Nei documenti annuari della Società Agraria Istriana si riporta che dall’anno 1771 all’anno 1794 la produzione di olio subì variazioni enormi a seconda delle condizioni climatiche e della siccità, passando la quantità prodotta da 20.468 a 1.050 orne.
Nella relazione del 15 luglio 1789 del deputato per gli oli, come riportato negli annuari della Società Agraria Istriana (anno III), si ricorda che:”...l’orrido gelo della stagione invernale 17881789 cagionò nell’Istria ingente danno agli oliveti...”.
Il grave ridimensionamento verificatosi nell’Ottocento si stabilì anche a seguito di pregiudizi di matrice popolare legati alla sensibilità delle piante al freddo, alla scarsa redditività delle stesse nel breve periodo, ma anche alla concorrenza degli oli di semi, alla frequente sofisticazione degli oli di oliva con questi ultimi ed in generale con uno scadimento degli oli di oliva sul piano qualitativo operato anche dagli stessi intermediari commerciali.
I nomi più comunemente adoperati a contrassegnare le varietà locali di olivo erano: Carbonese, Carbogno, Carbone, Carbonazzo; Bugo, Buso o Busiaro; Comune, Matta, Storta; Smartella o Martella; Morasol, Brombolese; Bianchera, Biancara o Bianca; Nera, Negrera, Nerastra o Nerizza; Rossignolo o Rossignol; Auber, Impunto o Puntito; Sandale, Sempreverde, Bellizza, Piccola, Grande e Grossara.
Con l’inizio dell’ultimo secolo l’olivicoltura non subì significative variazioni fino alla durissima gelata del 1929. Dal catasto agrario della provincia di Trieste (compartimento della Venezia Giulia e Zara) dell’anno 1929 erano conosciute due qualità principali: belice (Bianchera) e cernice (olive nere) e risultava che a Trieste fossero coltivati ad olivo 94 ettari nella zona agraria XVI (Muggia e S. Dorligo), di cui 77 nel muggesano e 17 a S. Dorligo.
Anche la zona costiera era ampiamente coltivata ad olivo, un quadro caratteristico era rappresentato dalle rigogliose piantagioni che abbellivano la sponda meridionale della ferrovia da Aurisina fino a Barcola. Ma in quell’anno cause concomitanti ridussero drasticamente la realtà olivicola locale. Le abbondanti nevicate accompagnate da un repentino abbassamento della temperatura e da forte vento di bora distrussero completamente la parte epigea degli olivi. Inoltre le ordinanze dell’allora regime fascista, nonché la stessa necessità di legna da ardere, obbligarono al taglio del legno ed anche all’estirpazione del ciocco, precludendo così la naturale riproduzione dai polloni.
Dal porto di Trieste imbarcazioni completamente cariche di legno di olivo da ardere salparono per varie destinazioni in Italia. I tronchi di ulivo vennero anche utilizzati per la produzione del carbon fossile.
Negli anni ‘30 per compensare la grave moria di piante furono introdotte delle nuove varietà da innesto, soprattutto le cultivar Pendolino e Frantoio, per testarne la resistenza al freddo. Ma purtroppo l’intenzione di rinnovare la coltivazione con nuove piantine venne vanificata dallo scoppio della II Guerra Mondiale.
Negli anni a seguire non vi furono significativi investimenti colturali a causa sia dei problemi che si dovevano fronteggiare per la ricostruzione del dopoguerra sia per la complessiva ristrutturazione dell’economia locale con prospettive più favorevolmente rivolte a nuovi insediamenti industriali ed allo sviluppodel terziario. Inoltre nel freddo inverno dell’anno 1956 un’altra grave gelata diede il colpo di grazia alla derelitta olivicoltura.
In quegli anni solamente la caparbietà di alcuni agricoltori che continuarono a credere in questa coltivazione, nonostante la scarsa capacità remunerativa, ha permesso il mantenimento di un certo patrimonio olivicolo locale di varietà autoctone come Bianchera e Carbona e di usanze locali.
A primavera l’olivo veniva concimato e potato, tradizionalmente le donne decoravano i ramoscelli appena recisi con le immagini dei santi e così addobbati li vendevano la domenica delle Palme sui sagrati delle chiese del Carso.
La raccolta delle olive (u’ljçe) aveva inizio dopo Santa Caterina (25novembre) e generalmente, veniva fatta dai soli componenti della famiglia: non era un lavoro troppo piacevole a causa del freddo e della Bora che in quel periodo dell’anno soffiava con particolare intensità. Le olive venivano raccolte con le mani direttamente da terra, qualche volta ci si aiutava con una particolare scala a tre piedi chiamata koblica e messe nella tuorba (baligo), una borsa di stoffa o di tela di sacco che veniva legata intorno alla vita. I frutti raccolti venivano posti in sacchi o in tinozze e sistemati su di un carro. Portati a casa venivano puliti delle foglie e dalle altre impurità e, per evitare che prendessero delle muffe,adagiati poi sul pavimento della soffitta o del fienile da 10 a 15 giorni ossia fino al primo turno di spremitura nel torchio.
Un tempo ogni paese aveva il proprio torchio che poteva essere di proprietà di un privato o della comunità. Al torchio lavoravano tre, quattro uomini contemporaneamente, dalle sei della mattina fino alle nove di sera circa, a volte anche fino a notte fonda. Per il lavoro svolto, che era molto faticoso, i lavoratori venivano pagati in contanti, tanto per quintale, oppure con una parte dell’olio ricavato.
Nel torchio le olive venivano pesate, poi rovesciate sulla macina e schiacciate; le macine venivano azionate manualmente da due uomini, da un asino o da un cavallo.
La pasta delle olive veniva poi messa nelle spuorte (appositi sacchi tondi con un buco in mezzo, di canapa o ginestra, in italiano fiscoli). Le spuorte venivano adagiate una sull’altra nella pressa (prjesa): 3 -4 spuorte, un lamarin (piatto d’acciaio), e così via fino a riempire la pressa (circa 150 - 180 kg di pasta d’olivo). Si iniziava allora la spremitura girando una vite (trta) che comandava la pressa, con l’aiuto di una spranga e anche questa faticosa operazione veniva svolta manualmente.
Dalla pressa il mosto scolava in un contenitore capiente: se il liquido usciva troppo lentamente, veniva di tanto in tanto versata dell’acqua calda per velocizzare lo scorrimento. Dal recipiente di raccolta veniva versato con un mestolo in un paiolo posto su di uno spargert, e messo a bollire per raffinarsi. Più l’olio bolliva, più si raffinava diventando però anche nello stesso tempo anche più acido, alcuni perciò lo bollivano meno a lungo. Completata questa operazione si raccoglieva l’olio raffinato ed il sedimento (muorklio)veniva ribollito a casa.
Ciò che restava delle olive spremute veniva chiamato nuogle(sansa) e veniva riusato nel torchio per attizzare il fuoco,qualcuno lo portava a casa per darlo come foraggio ai maiali, più spesso, però, era usato come combustibile nel focolare. Le nuogle bruciavano producendo parecchio fumo.
L’olio che durante la spremitura colava dal mestolo e dai vari contenitori nei passaggi successivi, alla fine della spremitura si conservava in un recipiente particolare. Di quest’olio si diceva che fosse per il lupo (za vuka).
Il contadino che aveva le olive in spremitura portava ai lavoratori anche da mangiare: il frustek a metà mattina, il pranzo e poi la juzna nel pomeriggio. Frequentemente veniva preparato del baccalà in bianco o del sedano, e dopo aver riempito il primo paiolo, solitamente, si offrivano delle frittelle (fancli).
L’olio d’oliva si conservava in grandi vasi di pietra in cantina, da dove veniva attinto con un mestolo; da qui il detto “..dalle nostre parti non basta la bottiglia, a casa nostra c’è il mestolo”.
L’olio veniva usato anzitutto per la verdura ed il pesce, per friggere i dolci, si consumava però anche crudo con il pane. Nell’olio si conservava anche il formaggio pecorino, che era considerato un cibo prelibato.
Nel secolo scorso il periodo più misterioso dell’anno era quello compreso da Natale all’Epifania. Questi erano i giorni segnati dalla più lunga oscurità, ed erano appunto chiamati le notti dei lupi. L’immagine delle dodici notti è rimasta a lungo viva nei ricordi della gente: questa affermazione si basa sulla testimonianza di alcuni anziani del Breg:“... nel periodo invernale si spremevano le olive nel frantoio, uno alla volta, in ordine. Quando uno finiva lasciava il posto all’altro. Era consuetudine lasciare l’olio che gocciolava dai vari recipienti per il lupo. Generalmente veniva portato a casa da quelli che lavoravano nel frantoio. A lavoro ultimato, invece si faceva il likof e si condiva con quest’olio la radice di sedano affettata con filetti di acciuga”.
L’olivo “Bianchera”, pianta molto rustica che tollera bene i
venti marini, il freddo e le energiche potature, è caratterizzata da
elevata vigoria e da lunghi rami fruttiferi con portamento assurgente.
Il frutto (di 2 grammi) ha forma ellissoidale ed è leggermente
asimmetrico. A maturazione ha sempre un colore verde ed è
caratteristico perché è coperto da numerose e piccole lenticelle.
La produttività degli olivi negli anni è buona e costante.
L’epoca di maturazione dei frutti è piuttosto tardiva e scalare nel
tempo con elevata resa dei frutti al frantoio (21 -24 % di olio).
Pietro Devitak (1847) ed anche altri autori descrivono questa
varietà ed i suoi pregi, e si descriveva che l’olio triestino, per
la sua eccezionale dolcezza, veniva inviato in omaggio all’imperatrice
Maria Teresa d’Austria.
Da una ricerca svolta sempre negli anni ‘50 dall’Istituto di
Ricerca Agricola di Capodistria risultava che la Bianchera innestata
fruttifica ogni anno e che la produttività media annua per pianta
è di 18 kg, mentre nelle altre varietà è di 11 kg.
La presenza della coltivazione dell’olivo in queste zone è
determinata da fattori ambientali ed agronomici diversi. Il clima
mite, perché risente della vicinanza del mare, e poco umido, favorisce
una buona produttività, mentre il terreno fresco e drenato,
tipico delle terre rosse e delle rocce calcaree, garantisce in primavera
ed in estate la crescita continua della nuova vegetazione.
L’adattamento dell’olivo a “Bianchera” in questo territorio è
testimoniato da Hugues nel manoscritto del 1902 depositato alla
scuola agraria di Parenzo. Egli indicava tra l’altro che le frequenti
escursioni autunnali permettevano ai frutti di questa cultivar di
maturare lentamente garantendo un continuo incremento della
resa in olio da ottobre a dicembre ed una elevata sintesi di acidi
grassi e di polifenoli, composti che meglio degli altri conferiscono
“stabilità” all’olio.
L’odore di fruttato non prevale sul sapore che manifesta una
sensazione di mandorla e di erba fresca da poco sfalciata.Appena
estratto è olio ben equilibrato e di splendida freschezza, tanto da
convincere il consumatori ad utilizzarlo subito. L’intensità e la
tonalità di colore è di uno splendido verde intenso.
L’olio di Bianchera si distingue per i bassi contenuti di acidi
grassi saturi (palmitico e stearico), mentre gli elevati contenuti di
polifenoli e di 2-esenale garantiscono all’olio una valutazione sensoriale
elevata.
L’olio extra vergine di Bianchera per il contenuto di clorofilla
mostra, appena estratto, un eccezionale colore verde intenso,
mentre la bassa acidità ed il numero di perossidi ne garantiscono
nel tempo la migliore conservazione. Per garantire la qualità del
prodotto, si inizia la raccolta dei frutti all’inizio di novembre per
terminarla entro il mese. Tale scelta, anche se riduce la resa al
frantoio, garantisce la produttività delle piante ogni anno limitando
così l’effetto dell’alternanza di produzione e garantisce l’ottenimento
di un olio extravergine di elevata qualità.
Il consumo di olio resta piuttosto basso rispetto ad altri paesi
mediterranei, ma la vendita diretta al consumatore dell’olio prodotto
in casa rende difficile la valutazione delle quantità prodotte.
Tratto dal volume:
Civiltà contadina in Istria” pubblicato dal Circolo di Cultura istro-veneta “ISTRIA”